Alcune riflessioni sulle oppressioni e disuguaglianze legate alla filiera agro-alimentare

05 Sep 2020 - Beatrice Lio
XR Magazine XR Trentino Alto Adige



La filiera agroalimentare nazionale rappresenta il percorso che un prodotto agro-alimentare compie dalla terra sino alle nostre tavole. In questo articolo, una nostra ribelle che si occupa di diritto ambientale e diritto alimentare, ci riassume un aspetto di questo argomento molto complesso, soffermandosi sugli anelli deboli della filiera stessa, gli operai agricoli, e sul tema delle agromafie. Nel finale il gruppo XR Trentino lancia un appello per partecipare ad un’azione digitale su questo tema.

Come sappiamo, la filiera agroalimentare italiana, il cosiddetto “made in Italy” è da sempre uno dei fiori all’occhiello del nostro Paese. Oltre ai numeri strettamente economici, il made in italy ha un inestimabile valore poiché è parte della storia, della cultura, delle tradizioni, dei rapporti sociali dell’Italia. Tuttavia esistono storie di di sfruttamento umano e ambientale che danno un’altra immagine della filiera agroalimentare italiana, ma altrettanto vera e purtroppo storicamente esistente.

Per prima cosa chiariamo la definizione di filiera agroalimentare: essa si riferisce ad un sistema che comprende attività, flussi materiali e informativi, tecnologie, risorse e organizzazioni che concorrono alla creazione, trasformazione, distribuzione, commercializzazione e fornitura di un prodotto agroalimentare finito.

Come spesso accade, in una filiera la legge di mercato fa sì che si individuino gli anelli deboli e questi saranno quelli che subiranno maggiori ingiustizie. Nella filiera agroalimentare questo anello è rappresentato dagli operai agricoli, i cosiddetti braccianti. Già il termine riduce queste persone a braccia, li mercifica e li espone al reclutamento di caporali.

L’agromafia è in Italia un fenomeno diffuso e persistente. Si tratta di attività illecite della criminalità organizzata che coinvolgono tutto il comparto agricolo e la filiera alimentare, dove la criminalità investe denaro sporco per controllare settori ‘puliti’ quali la ristorazione, la grande distribuzione e persino il turismo agricolo, accanto alle ingerenze illegali in settori come il ciclo dei rifiuti, le coltivazioni e la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli. Secondo il sesto Rapporto Agromafie elaborato da Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agroalimentare, si stima che il fatturato delle agromafie si aggiri intorno ai 24,5 miliardi di euro (circa il 10% del fatturato criminale del nostro Paese). Inoltre, lo Stato italiano ha difficoltà a quantificare il numero dei lavoratori irregolari presenti nei campi, secondo alcune stime si aggirano tra i 400.000 e i 430.000 mila lavoratori. Quando lo scorso gennaio l’Italia è stata condannata da parte delle Nazioni Unite, dopo l’indagine condotta da Hilal Elver, Special Rapporteur per i Diritti Umani, per il numero e le condizioni non dignitose degli operai agricoli, si parlava di almeno 600.000 irregolari.

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Tutta questa irregolarità da dove nasce?

I fattori sono molteplici e non sono da ricercare solo nei campi, come molto spesso sinora si è fatto. Infatti, le politiche contro il caporalato hanno cercato di osservare il fenomeno solo nell’ambito circoscritto del reclutamento da parte di gruppi mafiosi presenti nei territori dei campi, ma la nascita e la proliferazione di questo fenomeno non è solo da attribuire ai caporali o ai produttori agricoli che utilizzano queste forme di manodopera (così come sanziona la Legge Anticaporalato) ma bisogna risalire la filiera per arrivare alla Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Il caporalato nasce perché la vigilanza da parte dello Stato è assente e perché vi sono grosse multinazionali e gruppi d’acquisto che possono dettare “legge”, nonostante le direttive europee lo impediscano. I contratti di fornitura che le grosse catene di supermercati riescono a stipulare sono sempre a danno dei fornitori. Infatti, le clausole presenti in questi contratti prevedono molte “voci fuori fattura” cioè una serie di operazioni e strategie di marketing che i supermercati offrono e che i fornitori sono costretti ad accettare (dunque pagare) per rimanere sugli scaffali. Altri assi nella manica della GDO sono le aste elettroniche a doppio ribasso e i private labels.

Le aste online vengono indette dalla GDO e consistono nell’assegnare il contratto di fornitura all’azienda che offre il prezzo inferiore dopo due gare, in cui la base d’asta della seconda è il prezzo minore raggiunto durante la prima. Il tutto avviene nel giro di pochi minuti, su internet e gli offerenti partecipano nell’anonimità. Questo meccanismo è vessatorio per molti motivi: l’appalto è aggiudicato solo sulla base del prezzo; si partecipa in incognito – poca trasparenza; si hanno pochi minuti per fare un’offerta; il prezzo a cui si vende diventa un riferimento per tutte le GDO. Inoltre, le aste vengono svolte prima ancora che i produttori agricoli e le aziende trasformatrici si siano messe d’accordo sul prezzo di vendita. I fornitori vendono al buio un prodotto che non hanno e che non sanno quanto pagheranno. Quindi sebbene il prezzo minimo dovrebbe corrispondere a quello di produzione, molto spesso vengono aggiudicate aste a prezzi inferiori. Di conseguenza per non lavorare in perdita i fornitori si rifaranno sui produttori agricoli che saranno costretti a rifarsi sulla forza lavoro.

Saranno i braccianti a venire sottopagati, non nutriti, senza garanzie di contratto, tutele sanitarie, alloggi dignitosi. Ogni giorno gli operai agricoli faranno turni sotto il sole di agosto, senza acqua, cibo o tutele di alcun genere. Queste persone sono alla mercé dei caporali perché non hanno un permesso di soggiorno e l’unico modo per guadagnare qualche euro sarà farlo nell’irregolarità a condizioni disumane. Molti di loro sono morti nei campi. Queste persone sono invisibili a tutti: dallo Stato ai consumatori.

Altro problema sono i private labels: i prodotti col marchio del supermercato. Questa industria ha dei grandi vantaggi competitivi: non necessita di pubblicità, né di preoccuparsi dell’accesso al mercato, in quanto dispongono degli scaffali dei supermercati pronti ad esporli. In questo modo la GDO detta regole e prezzi per tutti i produttori. Si arriva allo scenario paradossale in cui i private labels sono prodotti dagli stessi fornitori che vendono al supermercato anche i propri prodotti. Si fanno concorrenza sullo scaffale nonostante l’unica sostanziale differenza sia il marchio. In questo caos viene incentivata la produzione al più basso costo possibile, incentivando criminalità organizzata, evasione e bassa qualità.

In una filiera ove la GDO detta le condizioni e gli altri attori non hanno mezzi per contrastarle non vi sono diritti dei lavoratori, diritti della terra, sicurezza, qualità, innovazione e manca qualsiasi tratto di orgoglio per il Made in Italy.

Quindi cosa fare?

Tutti sono attori necessari: in primis lo Stato che ha il dovere e il potere di regolamentare le dinamiche della filiera per assicurare che coloro che lavorano nei campi abbiano un regolare permesso di soggiorno (considerando che la maggior parte della manodopera è straniera), un contratto regolare di lavoro (il quale assicura non solo una paga dignitosa, ma anche condizioni di lavoro, di alloggio, di trasporto e sanitarie adeguate). La regolamentazione deve anche vietare pratiche commerciali sleali da parte della GDO e deve permettere ai consumatori di avere accesso alle informazioni di ciò che mangiano. Oggi è fondamentale incentivare un’agricoltura sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Ricordiamo i terribili effetti che i cambiamenti climatici stanno avendo ed avranno sulla produzione agricola mondiale: si rischia che se le emissioni inquinanti non verranno ridotte entro la fine del secolo la produzione di grano diminuirà del 20%, quella della soia del 40% e quella del mais del 50% secondo uno studio pubblicato su Nature Communications. È necessario il coinvolgimento di tutte le catene della filiera: le aziende che si occupano della produzione, trasporto, trasformazione, distribuzione e vendita dei prodotti agroalimentari. La filiera deve essere trasparente e tracciabile. Infine i consumatori devono responsabilizzarsi, avvicinandosi (anche letteralmente) alla terra, al cibo che mangiamo. Per fare ciò, data la complessità della filiera, vi sono realtà come la filiera corta che accorciano la distanza tra il campo e la tavola e possono darci più risposte su cosa stiamo mangiando e finanziando.

Come possiamo fare sentire la nostra voce?

In questi giorni è in esame al senato il DL n. 1373 che si occupa di sottocosto e di aste elettroniche a doppio ribasso, che intende rendere più difficile delle pratiche commerciali sleali che adotta la grande distribuzione. Le sanzioni previste dal decreto Legge però non sono sufficienti a disincentivare pratiche illegali. È l’occasione giusta per chiunque voglia attivarsi: vi invitiamo a partecipare il 9 Settembre alle ore 11 al mail bombing ideato dal gruppo XR Trentino che prevede come destinatari alcuni parlamentari coinvolti nel settore affinché agiscano per le problematiche di cui abbiamo parlato in questo articolo. Siate parte del cambiamento!

Approfondimenti:

  • F. Ciconte e S. Liberti “Il grande carrello” cibo-gdo-marketing
  • S. Liberti “I signori del cibo”
  • R. Anitori, A. Laforgia, R. Petralla “pomodoro nero” A. Mangano “lo sfruttamento nel piatto”
  • M. Omizzolo, “Sotto padrone”
  • A. Leogrande “Uomini e caporali”
  • Y. Sagnet e L. Palmisano “Ghetto italia”
  • L. Palmisano “Mafia caporale”